Cultura Il martirio religioso in Albania

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settembre 9, 2019
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DESCRIZIONE

Nello scenario della dittatura di Enver Hoxha, la storia di due cattolici, un gesuita e un laico fra torture e lavori forzati

È il momento della Chiesa albanese. La canonizzazione di Madre Teresa il 4 settembre scorso, la beatificazione di 38 martiri del comunismo il prossimo 5 novembre a Scutari e la berretta cardinalizia che il Papa consegnerà il 19 novembre a don Ernest Simoni, ultimo sacerdote vivente tra quelli perseguitati dal regime comunista, stanno lì a testimoniarlo. Perciò giunge quanto mai opportuno il libro Martiri d’Albania (1945-1990) curato da Roberto Morozzo della Rocca e Andrea Giovannelli (La Scuola, pagine 202, euro 15,50), che di quella stagione di sofferenze ci restituisce uno straordinario affresco, con testimonianze di prima mano.

Il volume ha il pregio di collocare sullo scenario della spietata dittatura di Enver Hoxha, tratteggiata nei saggi introduttivi dei curatori, la vicenda personale di due cattolici albanesi, il gesuita Anton Luli e il laico Gjovalin Zezaj, i quali sperimentarono il carcere duro e i lavori forzati, raccontata in prima persona dagli stessi protagonisti. Zoom potentissimo che ci fa entrare nei lager, nelle camere di tortura, nelle luride baracche arroventate dal sole d’estate e spazzate da vento e gelo d’inverno. Ci fa assistere a interrogatori surreali e processi già decisi prima ancora di cominciare (trasmessi alla radio la domenica mattina, in un programma intitolato L’ora gioiosa oltre a farci conoscere altre figure di sacerdoti non a caso inseriti fra i 38 martiri di ormai imminente beatificazione, e i loro crudeli aguzzini, alcuni dei quali non hanno nulla da invidiare ai “colleghi” dei campi nazisti.

Con rigore storico (pregevole l’apparato di note a pie’ di pagina), ma anche con pathos il libro offre uno spaccato delle persecuzioni cui fu sottoposta l’intera comunità cattolica albanese, che Hoxha decimò perché in essa c’era l’intellighenzia del Paese.

Impressionante la descrizione delle torture. Anton Luli racconta: «Adattarono un vecchio telefono con la manovella, collegandovi due fili metallici che fungevano da poli elettrici». Quando l’interrogato non voleva rispondere, gli mettevano i poli nelle orecchie e giravano la manovella. «Il corpo veniva come scaraventato in un immenso spazio: uno sconquasso totale, uno scintillio terribile, dolorosissime scosse e contrazioni muscolari, le mascelle sbattevano talmente forte che i denti si spezzavano. La tortura non poteva durare più di trenta secondi, altrimenti lo sventurato moriva. Subii più volte questo trattamento e venni a sapere che ad altri compagni applicavano la corrente ai genitali».Né questo era l’unico metodo. «Ad alcune donne, per esempio – è sempre Luli che ricorda –, misero un gatto a contatto con la pelle, quindi legarono le vesti in modo che la bestia non potesse uscire. Tormentavano poi l’animale cosicché reagisse con graffi e morsi. Ad alcuni tagliavano sulle braccia una striscia di pelle e mettevano sale sulla ferita. Ad altri ponevano uova bollenti sotto le ascelle legando le braccia così che non potessero muoverle. Altri ancora furono legati a un albero nel cortile della Sigurimi (la polizia segreta, ndr) e obbligati a restare in piedi senza mangiare né bere per vari giorni».

Spesso questi trattamenti avvenivano subito dopo l’arresto. Ma non meno crudele era finire nei campi di lavoro. Zezaj, che vi ha trascorso 11 anni, così riassume la “filosofia” che li ispirava: «I campi servivano per fare morire le persone, per infliggere sofferenze con dure condanne, non erano pensati per realizzare lavori realmente utili. C’erano dei periodi in cui avevo perso completamente le forze e non riuscivo nemmeno a spostare un sasso. Che risultati ottenevano questi campi? Nessuno. Solo instaurare il terrore».

Zezaj, pur molto anziano e fiaccato nel fisico (in seguito alla tortura con l’elettricità è diventato sordo), vive ancora. Il gesuita Luli, nato nel 1910, è morto nel 1998. Non sono dunque martiri in senso classico (come i 38 beatificandi), come non lo è don Ernest Simoni, che tra qualche settimana diventerà cardinale. Ma il Papa, parlando di quest’ultimo ha definito anche lui «un martire». E dunque analoga qualifica può essere estesa ai due protagonisti del volume. Le loro vicende riassumono le sofferenze di tutta la Chiesa in Albania. Sacerdoti, religiosi e laici.

Nessuno fu risparmiato dalle persecuzioni. Ordinato nel 1942, Luli venne arrestato la prima volta nel 1947 e fu liberato solo nel 1989. Singolare il fatto che poté emettere i voti solenni da gesuita dopo mezzo secolo di forzata attesa, da ottuagenario nel 1991.

La vita di Gjovalin Zezaj, invece, racconta le sofferenze dei laici, che non furono meno terribili. A Scutari egli dette vita, assieme ad altri studenti, a un professore e a un allievo del Seminario Pontificio, Mark Cuni (poi fucilato nel 1946 col gesuita Giovanni Fausti, due laici, e altri due sacerdoti, tutti nell’elenco dei 38 prossimi beati), alla cosiddetta Unione albanese, movimento non violento di opposizione al regime, che tentò di informare la popolazione dei pericoli dell’incombente dittatura. La sua “colpa” fu solo questa. La giovane età (15 anni), gli risparmiò il plotone di esecuzione, ma gli costò più di un decennio tra carcere e lavori forzati, alcuni dei quali passati nella palude di Maliq e nel campo di Beden, due dei più famigerati luoghi di detenzione dell’intera Albania.

Tuttavia, come annota Morozzo della Rocca nell’introduzione, anche questi due testimoni «guardano al passato con pacatezza e serenità. Naturalmente il comunismo è un male assoluto per loro che ne sono stati vittime». Ma «dalle loro parole traspare mitezza anziché risentimento o desiderio di rivalsa». Un tratto comune anche ai 38 martiri, morti perdonando i loro persecutori, e al prossimo cardinale Simoni. Sì, è il momento della Chiesa albanese. Non solo per l’esempio di fedeltà a Cristo che ora produce i suoi frutti, ma anche come “scuola di perdono” nell’Anno Santo della misericordia.

Tratto da: https://www.avvenire.it/agora/pagine/albania-racconti-di-martirio


Witnesses. Albania, stories of martyrdom

In the scenario of the dictatorship of Enver Hoxha, the story of two Catholics, a Jesuit and a lay person between torture and forced labor

It is time for the Albanian Church. The canonization of Mother Teresa on September 4 last, the beatification of 38 martyrs of communism on November 5 in Scutari and the cardinal’s hat that the Pope will deliver on November 19 to don Ernest Simoni, the last living priest among those persecuted by the communist regime, are there to witness it. Therefore the book Martyrs of Albania (1945-1990) edited by Roberto Morozzo della Rocca and Andrea Giovannelli (La Scuola, pages 202, euro 15.50), which gives us an extraordinary fresco of that season, with first-hand accounts. The volume has the merit of placing the personal story of two Albanian Catholics, the Jesuit Anton Luli and the secular Gjovalin Zezaj, on the scenario of the ruthless dictatorship of Enver Hoxha, outlined in the introductory essays by the curators. the hard prison and forced labor, told in first person by the protagonists themselves. A powerful zoom that allows us to enter lagers, torture chambers, filthy shacks scorched by the summer sun and swept by wind and winter frost. It makes us witness surreal interrogations and trials already decided before we even begin (broadcast on Sunday mornings, in a program entitled The Joyful Hour as well as introducing us to other figures of priests not incidentally included among the 38 martyrs of the imminent beatification) , and their cruel torturers, some of whom have nothing to envy of the “colleagues” of the Nazi camps. With historical rigor (the apparatus of footnotes is valuable), but also with pathos the book offers a glimpse of the persecutions which the entire Albanian Catholic community was subjected to, which Hoxha decimated because there was the country’s intelligentsia. The description of the torture was impressive. Anton Luli recounts: “They adapted an old telephone with a crank, connecting two metal wires that functioned from electric poles. “When the interrogator didn’t want to answer, they put the poles in his ears and turned the crank.” The body was thrown like in an immense space: a total upheaval, a terrible sparkle, very painful jolts and muscular contractions, the jaws flapped so hard that the teeth broke. The torture could not last more than thirty seconds, otherwise the unfortunate died. I repeatedly underwent this treatment and learned that other comrades were applying the current to the genitals “. Nor was this the only method. “To some women, for example – it is always Luli who remembers -, they put a cat in contact with the skin, so they tied their clothes so that the beast could not get out. They then tormented the animal so that it reacted with scratches and bites. Some people cut a strip of skin on their arms and put salt on the wound. Others placed hot eggs in the armpits by tying up their arms so that they could not move them. Still others were tied to a tree in the courtyard of the Sigurimi (the secret police, ed) and forced to remain standing without eating or drinking for several days ».

Often these treatments took place immediately after the arrest. But it was no less cruel to end up in the labor camps. Zezaj, who spent 11 years there, summarizes the “philosophy” that inspired them: “The camps were used to kill people, to inflict suffering with harsh sentences, they were not meant to make really useful jobs. There were times when I lost my strength completely and I couldn’t even move a stone. What were the results of these fields? Nobody. Only to establish terror “.

Zezaj, although very old and weakened physically (following the torture with electricity he became deaf), he still lives. The Jesuit Luli, born in 1910, died in 1998. They are therefore not martyrs in the classical sense (like the 38 beatificandi), as is not Don Ernest Simoni, who in a few weeks will become cardinal. But the Pope, speaking of the latter, also called himself “a martyr”. And therefore a similar qualification can be extended to the two protagonists of the volume. Their stories sum up the sufferings of the whole Church in Albania. Priests, religious and laity. No one was spared from persecution. Ordered in 1942, Luli was arrested for the first time in 1947 and was released only in 1989. It was singular that he could make solemn vows as a Jesuit after half a century of forced waiting, as an octogenarian in 1991.

The life of Gjovalin Zezaj, on the other hand, tells the sufferings of the laity, which were no less terrible. In Scutari he, together with other students, gave life to a professor and a student of the Pontifical Seminary, Mark Cuni (later shot in 1946 with the Jesuit Giovanni Fausti, two lay people, and two other priests, all on the list of the 38 next blessed) , to the so-called Albanian Union, a non-violent movement opposing the regime, which tried to inform the population of the dangers of the impending dictatorship. His “fault” was only this. The young age (15 years), spared him the firing squad, but it cost him more than a decade between prison and forced labor, some of which passed in the Maliq swamp and in the Beden camp, two of the most notorious places of detention in the ‘whole Albania. However, as Morozzo della Rocca notes in the introduction, these two witnesses also “look at the past with calmness and serenity. Of course communism is an absolute evil for them who have been its victims. ” But “from their words shines rather than resentment or a desire for revenge”. A trait also common to the 38 martyrs, who died forgiving their persecutors, and the next Cardinal Simoni. Yes, it’s time for the Albanian Church. Not only for the example of fidelity to Christ who now bears fruit, but also as a “school of forgiveness” in the Holy Year of Mercy.

Taken from: https://www.avvenire.it/agora/pagine/albania-racconti-di-martirio




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